Le mani sul cinema 1963/68, un percorso attraverso le edizioni della Mostra d’arte cinematografica di Venezia dirette da Chiarini

LE MANI SUL CINEMA
1963/68, un percorso attraverso le edizioni della Mostra d’arte cinematografica di Venezia dirette da Chiarini

1. Strategie per una rinascita del Festival, l’eredità di Chiarini

1963, la nomina di Chiarini a direttore arriva in momento di forte instabilità politica e sociale.
La XXIV edizione della Mostra d’arte cinematografica di Venezia si apre in un’Italia che subisce la continua messa in discussione degli equilibri interni dei singoli partiti, il vacillamento delle coalizioni di governo ed il forte rallentamento del processo di sviluppo (strascico degli anni del boom economico).
Nel giro di un anno si succedono ben tre governi (Fanfani, Leone, Moro) e,
dopo il clima di crescita che aveva caratterizzato i primi anni ‘60, si inizia ad entrare in odore di recessione. La politica economica è quindi attenta a proteggere il capitale a rischio e non può ancora permettersi concessioni a tutti quei settori del cinema finora trascurati dalle legislazioni precedenti (la prima legislazione che ripensi alla materia-cinema sarà quella del 1965).
Dal punto di vista ideologico,invece, in questa fase di tensione ma anche di mobilità dei vari settori, è riscontrabile una certa liberalizzazione dal punto di vista dei contenuti dei film2 “il cinema , nel suo aspetto di produttore di cultura, approfitta della spinta generale e del mutamento del vento politico, recupera energie che parevano scomparse , ritrova materiali accantonati nei cassetti, riprende a far parlare , in modo diverso, personaggi vecchi e nuovi” 3.

E’ in questo contesto che Luigi Chiarini, ‘’il professore’’, assieme alla nomina a direttore, eredita un’ istituzione in situazione di declino.
A lui il compito di ripensare al futuro di una manifestazione, che proprio durante la celebrazione del trentennale, si rivela debole nel mantenimento del suo principio costitutivo di manifestazione d’arte e cultura cinematografica.4
La conclusione della precedente (ed unica) edizione diretta da Domenico Meccoli, un liberale che non ebbe grande impronta innovativa sulla mostra, suscitò l’apertura di un dibattito attorno alle possibili manovre che avrebbero potuto rianimare la manifestazione veneziana.
Al centro delle discussioni la necessità di rivedere e democratizzare uno statuto regolamentare della Mostra, che risultava ormai svuotato del suo valore effettivo, nodo, questo, di difficile scioglimento data l’autonomia ancora solo formale del Festival del cinema nell’ambito dello statuto della Biennale d’Arte.
Guardando più da vicino il regolamento, la‘’formula di selezione Ammannati’’, in vigore dal 1956, infatti, era da considerarsi fallita, poiché risultava chiaro il prevalere delle scelte da parte degli interessi di produzione su quelle della Commissione di selezione (“per la XXIII edizione “- scrive Miccichè – “soltanto due terzi dei film furono selezionati e gli altri arrivarono per via divina”5), ed anche il principio di assegnazione dei premi era stato violato , data la necessità di compromesso con le esigenze commerciali cui le giurie dovevano attenersi al momento della designazione del palmarès.
Quello che eredita il nuovo direttore è un festival che si dichiara culturale ma che è legato a doppio filo agli interessi produttivi internazionali e nazionali ( Meccoli stesso la definisce una manifestazione ”basata su istanze che […]l’hanno resa storica testimonianza del mutare delle condizioni industriali di produzione e capace di rinnovarsi riaffermando la validità artistico-culturale della sua impostazione”6).
Una condizione di duplicità , questa, che farà da leitmotiv rispetto a scelte, posizioni, polemiche e rivolte nelle sei edizioni ‘chiariniane’ della Mostra .

2. Mostra d’arte o mostra del cinema sociale?
Mostra d’arte o mostra dei grandi produttori?

In risposta alle polemiche e alle critiche suscitate dall’edizione precedente Chiarini esordisce con una proposta precisa: valorizzare tutti gli aspetti positivi del cinema ( dalle più avanzate tendenze artistiche alle esperienze di linguaggio […]fino alle varie forme tradizionali di spettacolo per il vasto pubblico) “scegliendo opere che comunque si stacchino dalla massa della produzione non solo per dignità di fattura, ma anche per un’intenzione più sottile che non sia il successo per il successo’’7, e privilegiando le opere prime di registi esordienti.
Un intento che apre la mostra a tutte le varietà di forme del cinema, tenendo il criterio dell’artisticità come principio guida della selezione delle opere , per cui il direttore lavora in maniera autonoma avvalendosi della collaborazione di critici ed esperti internazionali ed abolendo, nel nuovo regolamento, la Commissione di selezione come organo formale8.
Un aspetto che Chiarini tiene in grande considerazione è la forza d’impatto sociale del cinema, che secondo il direttore, a partire da un terreno privilegiato come quello del Festival , puo’ avere effettiva influenza sul grande pubblico.
Attraverso lo spostamento di fuoco dalla dimensione di gala e di fastosità, a quella di funzione attiva sul terreno sociale e culturale, Chiarini compie un atto di fiducia nel cinema come strumento di diffusione delle idee9 ma deve comunque continuare a fare i conti con la subordinazione cinema agli interventi statali10.
Per Chiarini il film è da valorizzare nel senso artistico, il cinema nella sua dimensione di industria, e questa inevitabile doppiezza che si rispecchia nella sua politica direttoriale lo rende attaccabile sia da destra (per la politica di intellettualizzazione del festival a scapito della sua dimensione mondana) che da sinistra (per la sua mancata volontà di emanciparsi dallo statuto fascista della mostra, e per l’impossibilità di slegare la manifestazione dagli interessi commerciali).
Lo critica tra gli altri Lino Miccichè sull’ ”Avanti”, all’apertura della XXIV edizione, rimproverando il neodirettore di non esser comunque riuscito, nonostante la sua rigorosità da intellettuale, a fare una mostra di opere d’arte e di aver anzi dovuto includere nella rassegna film che ‘’possono essere destinati al grande pubblico’’11, mentre Giancarlo Del Re sul “Messaggero” polemizza apertamente accusandolo di aver inaugurato la Mostra all’insegna dell’austerità, tagliandone fuori la dimensione mondana per portarvi soltanto filosofi ed escluderne i divi e rendendola teatro di opere prime che non interessano a livello commerciale12.
Ed ancora Gian Luigi Rondi ne “Il Tempo” accusa la nuova gestione di grossi errori soprattutto a livello organizzativo “[…] frutto dei singolari criteri di austerità che hanno cambiato radicalmente quest’anno la faccia della Mostra.” ed aggiunge “[…]non possiamo non ricordare che nel 1932 la Mostra di Venezia oltre che con scopi artistici, è sorta con il preciso scopo di favorire la vita della città di Venezia e il suo sempre maggior inserimento nella vita culturale, artistica e mondana internazionale.”13
Vedremo se sia possibile trovare una chiave di lettura che avvicini questa apparente inconciliabilità delle istanze artistica e commerciale della rassegna .


3.0 Le mani sulla città: una lettura trasversale del Leone d’oro della XXIV Mostra
come documento storico

Partirò dalla lettura trasversale del film vincitore della XXIV Mostra per indagare a ritroso il meccanismo reticolare fatto di scelte politiche, interventi statali, equilibri di potere tra autorità coinvolte nella manifestazione, al cui apice si trova il verdetto finale della giuria.
Leggendo il film come documento di un’epoca, è possibile interpretarlo non solo come riflesso della realtà storica, ma come strumento di comunicazione elaborato in quel tempo e diretto ad un pubblico che è parte della società di quel momento, per arrivare a leggerlo non come mero prodotto della società che lo ha concepito, ma come parte del sistema di mediazioni e filtri attraverso i quali quella società ha letto ogni giorno se stessa.

Il caso del Leone d’oro della XXIV edizione é estremamente connesso , a diversi livelli (tematico, stilistico) al dibattito sociale .
Le mani sulla città si potrebbe contestualizzare nell’ondata del“secondo neorealismo”, in cui mentre prima ”i registi del neorealismo rosa , operando in una situazione assai più tesa e insicura, tendevano a istituzionalizzare la spensieratezza, ora ci si può permettere di coltivare l’ insoddisfazione”, attraverso la diffusione di un atteggiamento critico nato da una volontà di rinnovamento politico14.
Francesco Rosi è rappresentante di un modo di fare cinema che tiene presente quell’aspetto di forza sociale che Chiarini lesse tra le potenzialità del mezzo.
Rosi vince con un film che non è politico perchè sceglie di parlare di politica ma perché sviluppa, veicolati da un nuovo linguaggio espressivo, determinati temi per metterli in discussione, rivolgendosi al pubblico come interlocutore sollecitato a prendere posizione a riguardo.
In questo senso si puo’ parlare di cinema in cui la dimensione politica emerge attraverso sottili e complesse mediazioni, richiamando l’intervento della società a svolgere un ruolo attivo nei rapporti tra cinema e politica.
“Volendo dare una definizione del suo atteggiamento nei riguardi del mezzo con cui è portato ad esprimersi, potremmo dire che si comporta da convinto e sincero riformatore, nel senso che si muove dall’interno delle strutture (industriali, ma anche linguistiche) esistenti, ben sapendo che ne uscirà sempre e comunque un prodotto di consumo, ma ritenendo, proprio per questo, che sia possibile valersi dell’ampiezza e dell’incidenza del rapporto stabilito col pubblico, per correggere le caratteristiche acritiche e passive del consumo stesso”15.

Le mani sulla città centra con lucidità il problema attuale dell’occupazione del potere, non solo praticata, ma anche teorizzata come essenza stessa della politica, a giustificazione del regime che è andato e va sovrapponendosi alla forma democratico-parlamentare con sempre maggior decisione16.
Ad un primo livello tematico il film tratta le conseguenze di un caso di speculazione edilizia. Esiste poi un secondo livello, più chiaramente riferito alla situazione politica italiana, che ruota attorno alla manovra politica del consigliere-impresario che, per salvarsi da un’inchiesta, passa dalla Destra (non abbastanza forte per difenderlo dagli attacchi dell’opposizione) al Centro, sbilanciando così gli equilibri dell’amministrazione.
Un modus operandi di diretto riferimento alla situazione napoletana contemporanea al film, in cui il passaggio dall’amministrazione Lauro a quella DC avvenne proprio attraverso la scissione del gruppo monarchico manovrata dalla DC, che peraltro non mancherà di trovare appoggio presso i monarchici in più di un’occasione.

3.1 Linguaggio e struttura. Eloquenza oratoria.

Le mani sulla città si esprime attraverso una calcolata struttura oratoria che porta la narrazione sul piano della discussione e del confronto di idee (per cui si è parlato di capolavoro di arte oratoria o di “comizio” da parte dei più feroci oppositori).
“Il film assume la misura, e il respiro eloquente ,di un dibattito di idee17” scrive Adelio Ferrero a proposito della firma stilistica di Rosi.
La scelta stilistica di Rosi è anche sostanziale: l’autore non ci presenta un documento in modo didascalico, ma apre il racconto al dubbio ed alla riflessione spettatoriale attraverso un linguaggio che caratterizza i personaggi dando evidenza al loro volto‘pubblico’ ed alla loro funzione di portavoce di posizioni ed ideologie.
Una scelta , questa, che è un atto di fiducia nella funzione sociale del mezzo-cinema .

Le prime inquadrature del film mostrano una panoramica sulla foresta di cemento armato che sta divorando Napoli, poi la sequenza in cui viene illustrato il programma speculativo dell’impresario-consigliere Nottola, la tacita accondiscendenza del Sindaco e la tragedia del collasso della palazzina pubblica.
Già da subito ai canoni classici del linguaggio cinematografico espressi nella panoramica e nel crollo, viene accostato lo stile oratorio che dà inizio al dibattito.
Dalla sequenza successiva siamo nel pieno della rivoluzione linguistica di Rosi : con l’entrata della macchina da presa in Consiglio comunale avviene la “rappresentazione” di un’assemblea comunale davanti ad un pubblico di spettatori del cinema. In questo modo l’autore ‘fa discutere’ i politici pubblicamente. Attori che fan la parte dei politici, che consiste a sua volta nel recitare un ruolo: una forma di metarecitazione a doppio livello.
Il racconto prosegue poi attraverso le inquadrature nello studio dell’impresario fino alle sequenze dell’indagine della commissione d’inchiesta.
Dopo una parentesi dedicata alla visita del consigliere del Centro (Balsamo) e di Sinistra (De Vita) ad una giovane vittima del crollo (con tanto di discorso didascalico sulle condizioni generali dell’edilizia a Napoli), riprende il dibattito e la questione del prevalere dell’interesse privato su quello pubblico, nodo centrale del film, si fa chiara quando Nottola chiede al leader del suo gruppo politico di effettuare lo sgombero delle palazzine che circondano quella crollata.
Il confronto di idee continua, ancora, quando Nottola incontra De Vita all’interno del palazzo che sta costruendo e gli mostra le vecchie case, esprimendogli la necessità ‘collettiva’ di abbatterle per questioni di sanità e rinnovamento (riesce a vendersi come filantropo!).
A questo punto il timbro linguistico legato all’azione oratoria si attenua e si passa ad un ritmo più teso che fa da sfondo alla manovra politica di Nottola.

3.2 La metafora della manovra politica

La vicenda della manovra di passaggio dalla coalizione di Destra al Centro si apre sulla figura dell’impresario, che viene rappresentato come un eroe “all’americana18”.
Si ritorna poi al cuore dell’istanza politica e sociale nel dibattito tra De Angeli e Balsamo: la modesta dimora del consigliere del Centro fa da didascalia ad un discorso tra i due che crea una metafora diretta con la situazione dell’amministrazione napoletana , ma anche con la situazione del Bel Paese.
De Angeli si appella alla politica per evitare le questioni morali, come se la questa bastasse da sé a giustificare i mezzi della presa di potere o ad accettare compromessi incoerenti , in un’ottica in cui l’esercizio politico, svuotato dalla sua natura etica e morale, diventa pura e semplice occupazione di potere19.
La metafora continua, saldando il livello linguistico (dell’oratoria) con quello politico, ed attraverso le sequenze documentaristiche dei comizi elettorali raggiunge un apice ritmico che scende poi nelle sequenze che mostrano la sconfitta della Destra.
La prima assemblea del nuovo Consiglio comunale porta sul piano pubblico la questione centrale del film: il gioco di interessi esce allo scoperto sotto il nostro sguardo di spettatori . La situazione , però, non puo’ esplodere perché il tutto è perfettamente inquadrato nella cornice politica che lo ospita. Anzi, pare che l’equilibrio dell’asse del potere si sia spostato proprio dove si sono spostati gli interessi economici privati.
Il film torna a cerchio sulle immagini iniziali, il nuovo assessore ai Lavori Pubblici Nottola comincia a scavare le fondamenta del nuovo quartiere finanziato dallo Stato, a dimostrare il giro a vuoto di una commissione d’inchiesta che non è riuscita a provare né cambiare nulla20: il programma speculativo iniziale viene attuato da un’altra giunta.
Il finale apre una questione , istiga al prolungamento del dibattito, perché il racconto non veicola una chiusura di senso dettata da una presa di posizione autoriale, ma instilla un dubbio, fuori dal caso contingente, aprendosi sull’istanza più ampia di cosa significhi “fare politica” in Italia.

3.3 L’apertura al dibattito

“[…] il presidente della giuria Lanocita con voce querula ha cominciato a leggere i nomi dei premiati […] fu detto il nome di Rosi e si scatenò l’uragano, le ovazioni raggiunsero il vertice, ed anche i fischi; smoking variopinti e giovani con baffoni cavarono di tasca chiavi enormi. Per un momento si temette una zuffa generale.21”

“A fischiar Rosi la sera, premiato all’unanimità, sono i francesi e gli speculatori [..]alto un grido “Venduti!”, ma poi gli applausi si impongono per vari minuti. All’uscita c’è infine chi domanda cosa voleva dire mai quel “Venduti!” e a chi era indirizzato. E una di quelle solite dame sempre presenti spiega che era un grido rivolto alla giuria (esatto). “ Venduti a chi?” torna a chiedere dubbioso. “Ma via, alla speculazione!”è la non pertinente ma perentoria risposta della signora informata.22”

Se già il pubblico in sala durante la premiazione della XXIV Mostra è diviso in due tra fischi ed applausi, le reazioni da Destra e Sinistra non tardano a venire, anche dall’interno della Mostra, accendendo un dibattito politico attorno alla premiazione ma anche al tema del film.
Esempio lampante della rispondenza diretta della discussione sul piano sociale è la vicenda che coinvolge uno dei collaboratori alla Commissione di Selezione, il critico Guido Visentini il quale viene licenziato dal quotidiano “Giornale d’Italia” per aver dato un’opinione positiva sul film.
Anche Gian Luigi Rondi, per quest’edizione tra le file dei collaboratori di Chiarini, giudica la scelta finale della giuria come “l’ultimo errore di una Mostra sbagliata” accusandola di aver assegnato il Leone D’oro a Rosi per scelta di parte , poiché per merito – secondo lui ed un nutrito gruppo di critici – si sarebbe dovuto premiare Le Feu follet di Louis Malle23 .
Ed ancora Giambattista Cavallaro, sempre in commissione, nonostante lo apprezzi sul piano linguistico, trova poco convincente il modo in cui Rosi affronta i fatti concludendo che “forse il cinema non è il mezzo più adatto a proporre articolate questioni di politica”24.

La questione, che va oltre l’ambito degli equilibri interni alla Mostra, rimbalza subito fuori dal Festival dove sia sul versante di Destra che di Sinistra si accendono forti polemiche: c’è chi condivide il discorso di Rosi apprezzandone la funzione di provocatore sociale, ma avanza riserve di carattere estetico e chi dando giudizio positivo al film dal punto di vista stilistico dubita sulla chiarezza della questione centrale.
Comunque che sia per la tematica che apre riflessioni sul piano politico, o per la novità del linguaggio, il film finisce al centro di una giostra di commenti ,critiche , letture , di grande impatto sociale.
Forse a generare tutte queste polemiche è il fatto che per la prima volta viene premiato alla Mostra un film per l’impegno civile che lo contraddistingue e perchè, parola della giuria, “illustra con concitazione drammatica aspetti deplorevoli di una penosa situazione sociale”.
Questo dato inoltre, secondo Zampetti, “incoraggia a pensare che qualcosa sia effettivamente cambiato o stia cambiando con l’imminente ingresso dei socialisti nell’area governativa, ma per l’altro verso fa considerare il film come la prova del gradimento democristiano per una svolta che non esca dai binari ravvisabili nel comportamento di Balsamo e anche in quello legalitario di De Vita.25”
L’ assegnazione del premio massimo a Le mani sulla città resta comunque una scelta rischiosa poiché si tratta di un’opera di complessa lettura, per la quale spesso non si è tenuta a mente la stretta connessione tra il piano delle scelte linguistiche e quello delle indicazioni politiche, arrivando da parte di certa critica ad un giudizio ambiguo, senza netta presa di posizione (forse per non correre rischi ‘politici’ appunto…).
Se contestualizziamo quest’ atto di coraggio della giuria alla situazione di politica in cui si trova l’Italia, capiremo che ciò è reso possibile proprio dal momento instabile in cui il paese si trova, in cui l’avvento del centrosinistra e la caduta del cordone comunista porta, oltre al generale senso di insicurezza, alla caduta di molti tabù tematici e ad un processo di laicizzazione della stampa cattolica e comunista.

Per quanto riguarda la risposta del grande pubblico, da cui non si può prescindere per giudicarne l’effettivo impatto sociale, stando agli esiti del botteghino il film non suscita grande attrattiva, nonostante il dibattito e la vittoria del Festival.
Il film arriva soltanto al 61° posto nella classifica degli incassi con 618 milioni in tutto, in un anno in cui alle posizioni più alte ci sono film d’autore e di impegno (tra cui Il Gattopardo di Visconti, La ragazza di Bube di Comencini, Otto e ½ di Fellini, L’ape regina di Ferreri,..).
Ma da questo punto di vista , per capire a fondo come mai un film d’ interesse collettivo e di forte impatto emotivo non venga premiato dal pubblico, bisognerebbe aprire una parentesi sulle relazioni e gli accordi tra film lanciati dal festival e case di distribuzione o forse prima di tutto porsi il dubbio rispetto a quanto reale sia l’impegno del Festival di raggiungere il grande pubblico con le sue opere.

4. 1964 / 1965

Fra il 64 e il 65 , mentre il centrosinistra va rapidamente bruciando i suoi pur cauti impegni di rinnovamento, il cinema italiano entra in una nuova fase di depressione culturale.
La Mostra entra sempre più vigorosamente a far parte della vita politica del paese, tanto che la XXV edizione s’ inaugura con interventi ed interrogazioni della Camera a proposito della dubbia culturalità della stessa, soprattutto per i criteri di scelta delle opere, che non paiono, per l’edizione precedente, aver soddisfatto dal punto di vista commerciale .
Guido Aristarco, membro del comitato di esperti della commissione, risponde agli attacchi dei parlamentari difendendo i principi guida della Mostra chiariniana: artisticità e culturalità delle opere, ma soprattutto qualità su quantità.
Intanto il critico Valmarana esprime in un articolo sul quotidiano DC “Il Popolo” la volontà di apertura dei cattolici al fatto che in giuria ( e nelle commissioni di selezione ) della Mostra “vi sia una equilibrata rappresentanza di tutti”. Questo commento, in realtà di vena polemica, riapre il dibattito sulla faziosità della commissione che già Luigi Rondi aveva affrontato in calce alla vittoria di Rosi.
In risposta a Valmarana Lino Miccichè sottolinea il fatto che per la prima volta con Chiarini (primo Direttore non cattolico!) la commissione va sul serio in una direzione di democraticità ( e non di marxismo, come l’intervento del critico lasciava leggere tra le righe).
Il 1964 si conclude con il Leone d’oro a Deserto Rosso di Antonioni , assegnatogli “per la straordinaria solidità della rappresentazione ambientale e del conflitto con una sensibilità umana e in riconoscimento di tutta l’opera dello stesso regista”.
Un premio prima di tutto all’autore, e ad un’opera di grande valore artistico che sembra non scomodare nessuno.
Il Premio speciale della giuria va al Vangelo secondo Matteo di Pasolini “per la sapienza storica e figurativa, per la durezza del significato sociale, per la genialità nella scelta dei tipi umani”. Mi pare significativo notare come allo stesso film vada anche il “Premio dell’ufficio Cattolico internazionale del Cinema”(OCIC), gesto che denota un’apertura di vedute da parte della Chiesa nei confronti di un’opera che affronta un tema cristiano dandogli taglio sociale ed individuale26.
In questo senso il Cardinale Urbani loda il film e sottolinea che ‘’Anche se il film si rivela discutibile per certi suoi aspetti, potrà suscitare dibattiti che serviranno all’approfondimento della conoscenza di Cristo e del suo Vangelo”. Un premio che pare del tutto in linea con quel processo di apertura di vedute e cambiamento proprio del momento storico.

Ma il taglio artistico e culturale della direzione chiariniana non smette di suscitare polemiche: per l’edizione del 1965 Chiarini è costretto ad esordire con l’ennesima dichiarazione in difesa del suo modus operandi: “la Mostra non ha il compito di correre dietro ai gusti del pubblico o di fare pubblicità ai film coi legittimi modi propri dell’industria […] ma di diffondere sempre di più il gusto per i film di buon livello e per quegli aspetti che pongono il cinema tra le manifestazioni artistiche e culturali del nostro tempo.27”
Gli attacchi degli albergatori del Lido, della stampa, le assenze ostentate di produttori ed esercenti per l’austerità della mostra e gli interventi del Movimento di azione sindacale28 concorrono a creare un clima di ostilità : la XXVI edizione viene etichettata come “Mostra triste” .
Il Conte Volpi paventa un cambiamento radicale per la mostra minacciando addirittura di non presentarsi alla premiazione, mentre il Consiglio Comunale di Venezia (all’unanimità salvo destra liberale e missina) si riunisce per discutere il caso, riaffermando la validità culturale della Mostra e sottolineando il fatto che la cornice mondana non può essere appoggiata dagli enti pubblici ma deve venir supportata dagli organismi turistici interessati.
Durante la manifestazione, intanto, diverse testate giornalistiche avanzano
l’ ipotesi di una possibile sostituzione del Direttore, date le troppe polemiche suscitate dalla sua politica.
In questo clima di attacchi pesanti il Leon d’oro va a Visconti per Vaghe stelle dell’orsa: un premio criticatissimo sin dallo stesso regista il quale dichiara “Avevo già ottenuto tre Leoni d’argento per La Terra Trema, Le notti bianche e Rocco e i suoi fratelli ed avevo partecipato per cinque volte al festival. Avrei avuto diritto di guadagnarlo prima d’ora il Leone d’oro che, però mi era stato negato per ragioni politiche.29”, una scelta, insomma, che sicuramente non contribuisce ad allentare la tensione.

D’altra parte l’incapacità di una presa di posizione precisa delle Istituzioni (tolta l’amministrazione veneziana) mette Chiarini in una situazione precaria che va ad indebolire sempre di più la credibilità dell’evento.
Nota Adelio Ferrero “[…]nella serata conclusiva ci è toccato di assistere al penoso caso di un presidente della Biennale (Mario Marcazzan) e di un Ministro dello Spettacolo i quali , con un atteggiamento umiliante di chi si scusa ed intanto auspica per il futuro una collaborazione indispensabile di arte e industria, non hanno osato spendere una sola parola di riconoscimento verso la Direzione della Mostra. “ e continua spostando l’accento sulle reali responsabilità della debolezza del Festival “[…] allora bisogna dire a chiare lettere che i guai della Mostra non vengono da Chiarini e dai suoi collaboratori, ma dalla precarietà di una situazione istituzionale – dell’Ente veneziano e della congiuntura politica italiana – la quale può consentire che le esigenze di una rassegna d’arte , le caratteristiche di una manifestazione di cultura e la legittimità di una selezione rigorosa siano ogni anno accettate a denti stretti, senza adeguati riconoscimenti e aiuti, per poi venire messe in discussione e contestate, da coloro che dovrebbero tutelarne e garantirne la libera esplicazione.30 “

5. Verso il ‘68

La XXVII edizione si apre sulla scia delle critiche all’edizione dell’anno prima.
Al centro delle polemiche vi è la rinomina di Chiarini a direttore, evento che , secondo certa stampa, mette in luce la mancata autonomia dell’ente veneziano anche sotto il nuovo presidente della Biennale Favaretto Frisca.
Nella fattispecie il Consiglio di amministrazione viene accusato di essere un organo sottomesso alle decisioni politiche del governo, dove democristiani e socialisti avrebbero riconfermato Chiarini soltanto per una difficoltà di accordarsi su uno dei possibili nuovi candidati ( tra i nomi Gian Luigi Rondi, Giambattista Cavallaro e Giancarlo Vigorelli)31.
Importante è l’intervento che Miccichè fa sull’ “Avanti” in quei giorni, in cui riconduce tutte le polemiche avanzate negli ultimi anni attorno la Mostra ad un’unica questione che riguarda non tanto il Festival di Venezia nello specifico, ma il cinema tout court e la questione nodale “se esso abbia da restare sostituito dai vecchi “circenses”[…], o se possa essere anche qualche altra cosa, arte per esempio, o cultura (non mistificata, ma conoscitiva)32.”
Appare chiaro che la politica chiariniana è costretta a compromessi continui è causa intrinseca alla natura del cinema, ed anche per la XXVII rassegna viene attuato il “Piano Unitalia” che sembra andare proprio nella direzione dei “circenses”.
L’organizzazione della Mostra viene affidata ad Unitalia nel tentativo di ricreare la tanto desiderata cornice mondana e di riallacciare i rapporti col mondo del Mercato, ma il provvedimento non porta ad un cambiamento reale dell’assetto della Mostra, dato che si dimostrerà di difficile convivenza con la gestione chiariniana.
Anche l’edizione del ‘66 e la sua gestione provoca commenti negativi, in prima fila vi è la voce di Ferrero che individua i punti che avrebbero compromesso la linea Chiarini33 ed aggiunge che il panorama offerto da questa mostra non è altro che il risultato di un quadro politico-istituzionale arretrato , di una Biennale retta da strutture chiuse e statuti mai cambiati .
Il problema secondo lui più che di ordine individuale è politico e richiede scelte e controproposte dei gruppi che si muovono nell’area dei compromessi di vertice del sottogoverno.

Per quest’edizione il Leone d’oro va a La Battaglia di Algeri di Pontecorvo, un film di grande attualità che vince “per il coraggio con cui affronta un tema storico-politico di così ardua e scottante utilità, e per il vigore con cui ha saputo trattare una simile materia.”
L’opera acclamata dai critici e dal pubblico provoca l’abbandono del Lido da parte della delegazione ufficiale francese alla Mostra: una reazione contemplata sin dall’inizio poiché già prima che il film fosse portato a termine il governo francese dovette assicurare alle associazioni dei pieds-noirs rimpatriati il divieto assoluto di proiezione nelle sale e di utilizzo dei brani tratti dallo stesso per trasmissioni televisive.
La miccia si riaccende subito quando il film in gara al XXVII Festival veneziano vince il Leone: “Le Figaro” scrive che “il film meritava al massimo una medaglia di cioccolata”; “Combat” parla di “verdetto di vendetta” e perfino il moderato “Le Monde” scrive che “Le opinioni politiche della giuria hanno determinato l’attribuzione dei premi”34.”

Il film tratta gli eventi a partire della recentissima lotta condotta dal Fronte di Liberazione Nazionale (finita nel 62) per l’indipendenza algerina, e mostra il percorso fino alla liberazione attraverso le sanguinose repressioni coloniali francesi e gli altrettanto violenti interventi del FLN. La scelta di premiarlo è connessa strettamente alla situazione politica, dato che tutta la storia di lavorazione del film nasce da esigenze di documentazione storica di un fatto scottante: si tratta di un film concepito da autori italiani (l’Italia era in ottimi rapporti col FLN durante la lotta di liberazione-) e prodotto da Yacef Saadi, già comandante militare del FLN, ora titolare della società di produzione Casbah.
Fino al 1971 la distribuzione de La Battaglia di Algeri in Francia è vietata, e soltanto dopo molto tempo la stampa francese torna a parlarne favorevolmente, rendendosi conto che l’opera non è offensiva per la Francia.

Nel 1967 Chiarini rinforza l’impostazione culturale della mostra dando priorità agli autori nella selezione e subordinando l’internazionalità della mostra all’artisticità delle opere35.
Di fatto la mancanza all’appello di USA e URSS Spagna e Giappone provoca il popolo di critici pronti all’attacco.
Le polemiche continuano quindi, ma la linea chiariniana prosegue nel suo criterio di qualità ( tra le altre opere in concorso La Chinoise di Godard, Edipo re di Pasolini, I sovversivi dei fratelli Taviani, La cina è vicina di Bellocchio), ed il premio massimo viene asseganato a Belle de jour di Buñuel , che apparentemente sembrerebbe risarcire la Francia dal torto della precedente edizione.
Anche qui in realtà la questione è più delicata di quel che sembra, il film infatti era stato respinto proprio a Cannes “per insufficienza artistica” ed era stato denigrato dalla critica francese, quindi quella veneziana è una scelta controcorrente.
In sostanza l’edizione si chiude nello stesso clima polemico della precedente.

6. 1968. “Siate realisti, chiedete l’impossibile36”: la Mostra si fa Storia

Dopo le giornate del maggio francese ed i moti di contestazione al Festival di Cannes, la data d’inizio della XXIX mostra del cinema di Venezia, 21 agosto 1968, coincide con l’entrata dei sovietici e dei paesi del patto di Varsavia in Cecoslovacchia per porre fine alla primavera di Praga.
Questo dramma, che farà riflettere anche nell’ambito della Mostra sull’irrealizzabilità di un “socialismo reale”37, non ferma la contestazione nei confronti della Mostra e della Biennale.

La protesta si cova già dal luglio del 1968, quando” l’ANAC lancia un appello al boicottaggio della Mostra, seguito a ruota da quelli di FICC, ARCI, CUC, della sezione cinema del PC e della commissione cinema PSIUP; e da quelli delle riviste “Cinema nuovo”, “Cinema & film” e“Cinema 60” 38”.
L’appello al boicottaggio non è direzionato al direttore ma allo statuto della Biennale e sostanza stessa della Mostra tacciata di accademismo e chiusura di orizzonti. Si forma così un “Comitato di coordinamento per il boicottaggio” che concepisce un documento in cui la Mostra viene assimilata alla repressione sociale in atto nel paese.
La contestazione assume forza tale per cui la Biennale è costretta a dichiarare la propria disponibilità al dialogo e ad accogliere i cambiamenti strutturali richiesti dal comitato di boicottaggio.
Alla luce di queste contestazioni mentre i registi Mekas e Reitz si dimettono dalla giuria, gli autori Bellocchio, Cavani, Bene, Risi e Bertolucci annunciano la loro partecipazione al concorso, e Pasolini, pur ribadendo la sua stima a Chiarini, decide di non parteciparvi (comunque, dopo una lunga questione col produttore del film, il suo film Teorema verrà presentato in concorso).
Il 25 agosto Chiarini dichiara di “mettere a disposizione il suo mandato”, e lo stesso giorno Favaretto Frisca decide di far saltare la Mostra.
Il giorno dopo il comitato di boicottaggio si riunisce e propone una co-gestione per l’anno corrente con una divisione di responsabilità che veda la direzione tecnico amministrativa in mano agli uffici della mostra e quella culturale in mano ai contestatori.
La concessione ai boicottatori di fare un’assemblea in Sala Volpi provoca, come risposta, la riunione dell’associazione Autori Cinematografici Italiana (distaccatasi dall’ANAC) e di un gruppo di giornalisti contrari alla contestazione che si conclude con la rivendicazione del regolare svolgimento del Festival.
Quando la sera del 26 l’incontro tra le due assemblee (nell’ottica di aprire un dialogo tra giornalisti, Anac e comitato di coordinamento) è impedito dalla polizia ed “I membri del comitato di boicottaggio (tra i quali Pasolini, Maselli ed altri autori) vengono fatti uscire dalla sala Volpi con la forza e poi aggrediti e picchiati da un gruppo di abitanti del Lido misto ad elementi fascisti.39”, appare chiara l’impossibilità da parte della direzione di intervenire in una delle due direzioni o di conciliare in qualche modo le due istanze.

L’Unità commenta: “Avrebbe potuto accogliere le richieste degli uomini del cinema, presiedere una Mostra gestita in forma non assembleare. Non ha voluto. E’ apparso chiaro come il prof. Chiarini non fosse ormai che uno strumento, la testa di turco delle forze conservatrici che gli stavano dietro e che – dopo averlo tanto avversato – lo sostenevano in questo suo malinconico tramonto di direttore progressista della Mostra del Cinema.40”
Ed Aprà in “Cinema&film” scrive che in quel momento “[…] a chi parlava di statuto fascista è stata offerta la prova fisica che non solo di statuto fascista si trattava, ma tout cort di festival fascista di fronte alla scelta della direzione e della presidenza di schierare una sproporzionata quantità di forze dell’ordine e di fronte poi al silenzio ‘vigliacco’ della stampa41”.
Quando il 27 agosto la Mostra inizia comunque (nonostante le ulteriori dimissioni di alcuni membri del comitato di esperti ed il ritiro del film di Brook Tell me lies) il comitato di boicottaggio interpreta la riapertura del festival come mancato rispetto delle promesse da parte della Biennale .
A quel punto il clima di tensione cresce, la polizia presidia tutte le proiezioni, si succedono manifestazioni 42, tafferugli col pubblico elegante delle serate di gala, ed intanto, grazie all’incontro organizzato da Pasolini a Marghera, la questione del necessario rinnovamento dello statuto della Mostra, viene aperta agli operai del petrolchimico e al mondo studentesco.
Quasi estranea alla pressione della Storia, la Mostra che aveva rispettato comunque il programma di concorso, si conclude in un gesto che potrebbe sembrare un tentativo di compromesso con le istanze della protesta: il Leone d’oro va al tedesco Die Artisten in der Zirkuskuppel: ratlos di Kluge43, un film schierato con l’estrema sinistra.
Ma anche qualora si tratti di un premio assegnato nell’ottica del compromesso, l’operazione non serve a molto: a differenza di Cannes che è uscita senza danni dalla contestazione, a Venezia il boicottaggio della Biennale è riuscito nel suo intento, tanto che per dieci anni la manifestazione non avrà luogo, sostituita, da una manifestazione non competitiva “Le giornate del cinema italiano” nata proprio sull’onda delle tematiche della contestazione.

7. Fine dell’epoca Chiarini, inizio della lotta

“L’autore in Italia non ha alcun diritto sulla pellicola, il padrone è il produttore. Il produttore ha interesse a presentare il film al festival, l’autore no. Gli interessi sono opposti”, così risponde Pasolini alla richiesta di spiegazione rispetto alla vicenda della proiezione di Teorema a Venezia, e continua “ Il produttore non ha inviato il film senza il mio consenso, dapprima eravamo d’accordo, poi per la situazione creatasi mi sono dissociato ed ho inviato a Chiarini un telegramma in cui dichiaravo che non desideravo che il film fosse proiettato al festival.”
La vicenda del film di Pasolini alla XXIX mostra è emblematica rispetto alla divergenza di intenti tra produttore ed autore ed è in linea con le rivendicazioni degli autori (nonostante la decisione finale di Pasolini di partecipare “mettendo il proprio corpo nella lotta”).
L’ANAC che ha detto inizialmente no alla Mostra, otto giorni prima dell’inizio del Festival ha precisato che avrebbe occupato i locali per ottenere un’estromissione della direzione ed un’autogestione con l’intenzione di rivisitare lo statuto della mostra e dividere definitivamente le due sfere autoriale e di produzione.
Pasolini interviene ancora a proposito dicendo“Se lo Stato dà i soldi, è perché il festival abbia carattere culturale. Ora, gli unici che hanno interessi culturali sono gli autori. I produttori hanno soltanto interessi commerciali. E allora paghino i loro festival come gli industriali pagano il Carosello alla televisione per pubblicizzare i loro prodotti.”
Risulta chiaro in questo senso che la figura di Chiarini, nonostante venga osteggiata dagli autori per l’atteggiamento sordo e repressivo tenuto nel ‘68, ha giocato un ruolo importante nel portare in primo piano la questione della difficile convivenza mercato-cultura nell’ambito del Festival (stessa questione, paradossalmente, che lo farà poi affondare!).
Alla fine della conferenza stampa in cui si dichiaravano le linee degli autori in protesta Maselli conclude: “E’ possibile l’autogestione ed è per questo che lottiamo[…] questo tipo di lotta non riguarda solo la Biennale, riguarda tutta la politica cinematografica, questa è la battaglia per cambiare le leggi e le strutture. E’ la lotta degli autori. E’ l’alternativa all’industria privata. La speranza potrà essere tradotta in realtà.44”
Anche per gli autori è chiaro che l’esperienza della contestazione di Venezia ha funzionato da campo di prova di alleanze e poteri, facendo sparire le ambiguità che fino a quel momento impedivano una effettiva azione di rinnovamento di strutture e modi del festival, ma soprattutto ha fatto da premessa ad un discorso di rinnovamento del cinema e di riflessione sul suo ruolo sociale che avrà il suo seguito nelle manifestazioni cinematografiche veneziane degli anni successivi.

FILMOGRAFIA

– Francesco Rosi, Le mani sulla città, Istituto Luce, Roma, 1963

– Gillo Pontecorvo, La battaglia di Algeri, Casbah, 1966

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